Il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso della Clinica a tutela della sig.ra E.P. avverso il diniego della protezione internazionale da parte della Commissione territoriale di Roma.
Secondo il collegio, in caso di rimpatrio nel Paese di origine (Nigeria), «la ricorrente correrebbe il concreto rischio di essere vittima di un re-trafficking a causa della sua esperienza di prostituzione in Italia», oltre al rischio «di essere stigmatizzata, perseguitata e marginalizzata, non solo in quanto vittima di tratta e di schiavitù sessuale, ma anche in quanto contraria alla sottoposizione della figlia alla pratica della mutilazione genitale femminile».
I giudici concludono, quindi, rispetto all’evidente «rischio concreto e attuale di subire discriminazioni di genere, incluse forme di reclutamento, vittimizzazione e re-trafficking, tali da ammontare a persecuzione in ragione della propria appartenenza ad un particolare gruppo sociale».
La decisione è informata a una prospettiva di genere al diritto d’asilo riconoscendo che, in base alla normativa multilivello in materia, «la tratta delle donne e gli atti di violenza perpetrati contro il genere femminile costituiscono atti di persecuzione di appartenenza ad un determinato gruppo sociale e, se accertata la sua specifica riferibilità alla persona della richiedente, come nel caso di specie, costituiscono il presupposto per il riconoscimento della più elevata forma di protezione internazionale». La decisione richiama, in particolare, il Protocollo delle Nazioni unite contro la tratta e la Convenzione di Istanbul del 2011; la Carta europea dei diritti fondamentali e la Direttiva 2011/36/UE; e, a livello interno, i D.lgs. n. 251/2007, D.lgs. n. 142/2015 e D.lgs.n. 24/2014.