In un saggio del 1903 l’intellettuale afroamericano William Edward Burghardt Du Bois – che nel 1909 sarà tra i fondatori della National Association for the Advancement of Colored People(NAACP) – scriveva che l’oggetto dell’alta formazione deve essere la stessa potenzialità umana: l’intelligenza, la solidarietà la conoscenza del mondo e delle relazioni che l’uomo intrattiene con esso. Se invece eleviamo a oggetto della formazione quelle che sono mere competenze tecniche, corriamo il rischio di confondere gli strumenti del vivere con l’oggetto della vita (Du Bois, The Negro Problem, New York, 1903). Non vi è dubbio che, oggi, la comprensione del rapporto che l’uomo intrattiene con il mondo non può prescindere dalle migrazioni. Non un fenomeno sociale tra gli altri, bensì, come ha sottolineato il sociologo algerino Abdelmalek Sayad riprendendo un’espressione di Marcel Mauss, un “fatto sociale totale” che travolge l’intero corpo politico e sociale, i suoi sistemi simbolici, le sue regole e la visione che di queste hanno i consociati.
Per fare delle migrazioni un oggetto della formazione giuridica non sembra dunque sufficiente fornire competenze tecniche riferibili al diritto dell’immigrazione (di per sé transdisciplinare), ma occorre muoversi verso una riflessione che investe le trasformazioni del diritto stesso e il suo insegnamento. È in questa direzione, certo ambiziosa, che si è strutturata la sperimentazione della “Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza” avviata dal 2011 presso la Facoltà (ora Dipartimento) di Giurisprudenza di Roma Tre. Accanto al corso, suddiviso in un modulo di diritto e in un modulo filosofico-giuridico, gli studenti gestiscono direttamente un servizio di orientamento ai diritti rivolto a migranti e richiedenti asilo che, a distanza di tre anni dalla sua apertura, è diventato un punto di riferimento per l’intero territorio cittadino, ricevendo oltre 150 utenti l’anno. In altre parole, la Clinica Legale di Roma Tre ha fatto delle migrazioni un oggetto della formazione giuridica, non solo insegnando il diritto dell’immigrazione, ma portando all’interno dell’università i soggetti nei quali i diritti sono incarnati. Si tratta di un risultato ottenuto grazie alla risposta appassionata degli studenti, che hanno saputo cogliere una sfida che va ben oltre quella di offrire un servizio al territorio, poiché suggerisce un cambio di prospettiva sull’insegnamento del diritto. Sono infatti gli stessi soggetti portatori di diritti a determinare quali siano i temi di studio e di ricerca rilevanti, in un processo di co-produzione della conoscenza e di messa in comune del sapere giuridico. Da questo punto di vista, la Clinica di Roma Tre si propone al territorio come attore che contribuisce alla produzione di un bene pubblico fondamentale, quale è la cultura giuridica, traghettandolo dalla ristretta comunità dell’accademia e degli addetti ai lavori a una più ampia comunità sociale.
Fare delle migrazioni oggetto della formazione giuridica significa però riflettere anche sulle trasformazioni del diritto e sulle visioni che i consociati producono dell’ordine giuridico. Molti autori hanno osservato come, negli ultimi due decenni, il diritto dell’immigrazione abbia assunto un carattere speciale, nella misura in cui le sue regole derogano ai principi generali dell’ordinamento. La mostruosità giuridica – come è stata da più parti definita – della detenzione dei migranti in attesa di espulsione, la cui libertà personale è limitata sul presupposto di violazioni amministrative anziché penali, costituisce un esempio paradigmatico di questo carattere derogatorio. Parlare di un diritto speciale può tuttavia trarre in inganno, generando l’illusione che si tratti di un diritto rivolto solo a un gruppo circoscritto di soggetti, precisamente riconoscibili come gli altri. L’illusione sta nel fatto che la democrazia non è fruibile come privilegio: si tratta di un bene collettivo il cui godimento non può essere circoscritto ad alcuni con l’esclusione di altri. Da questo punto di vista, le migrazioni hanno sicuramente travolto le regole di un ordine che non può più consolatoriamente pensarsi come democratico, dal momento che ha rinunciato all’aspirazione universalistica dell’uguale soggetto di diritti.
Le cliniche legali si sono affacciate solo di recente sul panorama della formazione giuridica italiana. Raramente si rammenta che, negli Stati Uniti dove sono nate e si sono sviluppate, hanno spesso legato i loro destini alle battaglie per i diritti civili e hanno trovato impulso soprattutto nel movimento dei Critical Legal Studies, che per primo ha volto l’attenzione alle pratiche di conservatorismo dell’accademia (dalla didattica, all’accesso alla docenza, al mantenimento delle gerarchie professionali, all’elusione dei problemi di giustizia sociale). Troppo spesso si tende invece a confondere l’approccio esperienziale all’apprendimento e l’interazione diretta degli studenti con la realtà giuridica e sociale – che pur caratterizzano le cliniche legali – con un intento professionalizzante. Come ricorda Du Bois, l’oggetto della formazione deve essere l’uomo e la sua interazione con il mondo, non il modo per guadagnarsi da vivere. A questo obbiettivo non può che rispondere l’università: “un’invenzione umana per la trasmissione della conoscenza e della cultura da una generazione all’altra, attraverso l’esercizio delle menti e dei cuori, un compito per cui nessun altra invenzione è sufficiente” (cit., p. 32)
Enrica Rigo
Ricercatrice in Filosofia del Diritto
Coordinatrice della Clinica del Diritto dell’Immigrazione e della Cittadinanza – Dipartimento di Giurisprudenza